
Uno spazio che propone una serie di casi esemplari della relazione fra luce e design, declinati ogni volta da una parola guida.
Parole Guida: LIGHTING DESIGN
In ambito accademico il design è considerato in Italia una disciplina “giovane” (25 anni di Corsi di laurea universitari) e dallo statuto “debole”. Né arte, né disciplina umanistica, il design soffre di una incerta collocazione nell’alveo delle scienze applicate, e condivide con le scienze sociali l’incertezza sulla replicabilità dei fenomeni osservati. Si tratta di un problema comune alla cultura e alle discipline del progetto.
Un’altra “debolezza”, per il design, appare l’estesissimo oggetto del suo operare: dall’arredamento (furniture) alla luce (lighting), dalla comunicazione visiva (graphic) alla moda (fashion), dagli interni (interior) agli allestimenti (exhibit), dalle interfacce (interaction) alla grafica in movimento (motion). Trasversalità ed estensione del progetto alla varietà degli artefatti umani che per molti rappresenta, al contrario, il vero valore della disciplina.
Nel caso del lighting design, tuttavia, le cose stanno diversamente. Si tratta di uno dei pochi campi – all’interno delle discipline del progetto di prodotti e ambienti – dove al design è conferita (ed è necessaria) una scientificità di approccio ai problemi.
Il lighting designer si trova a dover necessariamente masticare alcune basi di fisica (ottica, elettrologia e meccanica), di medicina (anatomia e fisiologia oculare), di psicologia della visione, di chimica, elettrotecnica ed elettronica. È ancora valida oggi questa impostazione formativa?
Il ‘900 è stato, il secolo dell’illuminotecnica. Tre generazioni di progettisti si sono formate sui manuali e sui cataloghi di sorgenti e apparecchi d’illuminazione leggendo e progettando curve fotometriche.


Per quanto si possa convenire con chi ritiene la manualistica l’opposto della progettazione, il suo valore formativo di base è indubitabile. I meno competenti si basavano su casi studio: non sapevano il come, ma sapevano che cosa, cioè quale tipo di luce volevano.
Si può sorridere oggi sull’Aloi e i suoi Esempi, ma quegli spazi bene illuminati e dettagliatamente descritti hanno educato alla sensibilità nei confronti della luce molti architetti del secondo dopoguerra.
Certo l’occhio umano non è più quello assunto, un secolo fa, come base delle grandezze fotometriche; la sua sensibilità è cambiata, e contemporaneamente sono cambiati i luoghi di lavoro, i musei, le scuole.
La visione è anche un fenomeno culturale: noi vediamo ciò che ci insegnano a vedere e nel modo in cui ce lo insegnano e inoltre, come sosteneva Carl Gustav Jung riferendosi all’inconscio collettivo, “non siamo né dell’oggi né dell’ieri, ma apparteniamo a un’epoca immensa”. Il modo in cui vediamo si è formato nel corso di un processo evolutivo di milioni d’anni di cui portiamo memoria.
Questo significa che, oltre a una preparazione tecnico-scientifica di base, un lighting designer deve saper leggere e interpretare le trasformazioni culturali della società in cui vive. In una prospettiva human centered sappiamo che al centro del nostro ragionamento non ci può essere la luce come fenomeno fisico, ma l’essere umano con i suoi bisogni e limiti.

I designer americani, con l’ergonomia e gli human factors come base dela metodologia progettuale, ci erano arrivati ancora negli anni ’50 e Henry Dreyfuss aveva sintetizzato nella celebre environmental comfort zone le relazioni tra l’essere fisiologico e cognitivo e le variabili ambientali. Anche in tal senso il lighting design ha sempre avuto un vantaggio, avendo adottato (per necessità) un approccio parametrico molto prima che la parola venisse introdotta diffusamente nel campo del progetto.
Anche Gropius, una volta messo piede in America, era stato influenzato da questo approccio psico-fisiologico: “È questo il compito dell’educazione – scriveva nel ’55 – : insegnare ciò che influenza la psiche umana in termini di luce, scala, spazio, forma colore. Espressioni vaghe come l’”atmosfera di un edificio” oppure “il calore di una stanza” dovrebbero essere definite con precisione e in termini specifici”.
Forse ciò che possiamo immaginare per un lighting design del futuro è proprio una lingua nuova, in grado di definire in modo più preciso la qualità della luce in relazione alla qualità della vita delle persone. Non una lingua interna alla disciplina, che già esiste, ma una lingua per dialogare con gli interlocutori dei progetti che – in una dimensione sempre più partecipata – sono spesso anche meno competenti.
Usiamo ancora un linguaggio sinestetico impreciso: tonalità calda o fredda, intensità bassa o alta. Mentre tutti sanno, per esperienza, che cosa siano 20 C di temperatura o 50 Km/h di velocità, come progettisti sappiamo che Kelvin, Lumen e Lux sono entità sconosciute ai più.
Bisognerebbe perciò iniziare dalle scuole medie ad educare alla luce e alle sue manifestazioni. O forse prima. Aveva ragione Bruno Munari, il design è troppo importante per il futuro della società, bisogna iniziare a insegnarlo dalle scuole elementari.
(a cura di Dario Scodeller – critico e storico del design, Venezia)