
Le cosiddette tecniche produttive additive, più comunemente note come stampa 3D, si stanno diffondendo sempre più rapidamente, al punto di far parlare di una nuova rivoluzione tecnologica. Queste tecniche però portano con sé in pari tempo opportunità e problemi
Una caratteristica peculiare della stampa tridimensionale è quella di poter essere attuata a basso costo e con mezzi relativamente semplici anche per produzioni limitate, e quindi di prestarsi ad un’ampia diffusione, potenzialmente (ma in parte già attualmente) anche presso i privati.
Sotto questo profilo la stampa in 3D presenta quindi molti punti di contatto con le infinite possibilità di riproduzione virtuale delle opere dell’ingegno offerte dalle nuove tecnologie digitali ed in particolare, oggi, dalla rete Internet, di cui costituisce in qualche misura il corrispettivo nel mondo delle cose materiali. In particolare, la combinazione di queste tecnologie – stampa in 3D, digitalizzazione e rete Internet – crea una miscela potenzialmente esplosiva, consentendo la circolazione su larghissima scala dei file contenenti le informazioni idonee alla riproduzione, appunto mediante le stampanti 3D, di una gamma vastissima di oggetti delle più disparate tipologie, facendo fare un altro passo avanti alla società dell’informazione, ma creando inevitabilmente anche nuove possibilità di conflitti con i diritti altrui.
E di tutto ciò anche il mondo del design dell’illuminazione deve tener conto, perché solo preparandosi al meglio (e facendosi assistere legalmente in modo adeguato) si possono cogliere tutte le opportunità di questa nuova tecnologia, riducendo i rischi e le minacce legati ad essa.

Stampa 3D e brevetti
La circostanza che la stampante 3D venga utilizzata per una produzione di carattere domestico e quindi al di fuori di una destinazione commerciale può assumere anzitutto rilievo “scriminante” rispetto alla protezione brevettuale, poiché l’art. 68 C.P.I. esclude espressamente dall’ambito di protezione dei brevetti gli «atti compiuti in ambito privato ed a fini non commerciali».
La norma non fa distinzioni di sorta e quindi non incontra neppure la limitazione generale prevista invece per le eccezioni al diritto d’autore, che
possono venire «applicate esclusivamente in determinati casi speciali che non siano in contrasto con lo sfruttamento normale dell’opera o degli altri materiali e non arrechino ingiustificato pregiudizio agli interessi del titolare» (art. 5, comma 5° Direttiva n. 2001/29/C.E., che codifica il cosiddetto three-step test previsto anche dal TRIPs Agreement e prima ancora dalla Convenzione di Berna).
Si è però sostenuto che si dovrebbe ripensare l’interpretazione di quest’eccezione in materia brevettuale, anche in considerazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, che impone di trattare in modo eguale situazioni equivalenti.
Questo potrebbe voler dire che l’attuazione del brevetto in ambito privato e non commerciale attraverso le stampanti 3D può ritenersi lecita solo in quanto non si utilizzino a tale scopo progetti e file prodotti serialmente proprio allo scopo di consentire questa riproduzione “domestica” di prodotti brevettati.
In ogni caso va ritenuta illecita la fornitura, anche a privati, dei mezzi che consentono questa attività, ed in particolare quella dei file o di progetti realizzati da terzi proprio allo scopo di consentire la riproduzione del prodotto brevettato.
La giurisprudenza italiana considera illecita questa condotta come contributory infringement, quando i mezzi siano forniti da un soggetto consapevole della loro destinazione al compimento di una fattispecie vietata, o comunque quando essi siano obiettivamente e univocamente destinati all’attuazione del brevetto.
In particolare una pronuncia del Tribunale di Torino ha ravvisato un’ipotesi di contributory infringement di un brevetto avente ad oggetto una stampante 2D nella «produzione e commercializzazione di cartucce per l’inchiostro che appaiono presentare univoca destinazione ad essere utilizzate dalla stampante rivendicata».

Stampa 3 D e “clausola di riparazione”
Anche questo è un profilo che può presentare particolare interesse in relazione alle stampanti 3D, una delle cui applicazioni più diffuse è tipicamente proprio quella di realizzare pezzi di ricambio, in particolare di piccole dimensioni, per prodotti preesistenti.
Si deve infatti escludere che operi in materia di brevetti la c.d. “clausola di riparazione”, prevista all’art. 241 C.P.I., a norma del quale «i diritti esclusivi sui componenti di un prodotto complesso non possono essere fatti valere per impedire la fabbricazione e la vendita dei componenti stessi per la riparazione del prodotto complesso, al fine di ripristinarne l’aspetto originario»: tale norma deriva dall’art. 14 della Direttiva n. 98/71/C.E. e opera quindi solo per i diritti di esclusiva derivanti da una registrazione come disegno o modello, mentre non costituisce un limite alla possibilità di far valere diritti di esclusiva discendenti da altri titoli, in particolare brevetti e marchi.
Invece per i design registrati (e per quelli non registrati che godono della protezione triennale prevista dal Regolamento sul modello comunitario) l’art. 241 C.P.I. assume una considerevole importanza in relazione alla stampa in 3D.
Tale norma, tuttavia, si applica solo quando risulta, sulla base delle circostanze del caso concreto, che il ricambio non è destinato alla riparazione di beni originali per ripristinarne l’aspetto estetico complessivo, ma alla costruzione ex novo di prodotti copia, o alla realizzazione di prodotti contenenti (anche) componenti originali, ma che vengono “riassemblati”.
Poiché l’onere di dimostrare l’effettiva destinazione del ricambio alla riparazione grava su chi invoca la clausola di riparazione, di essa non può avvalersi chi abbia fornito i pezzi in questione (o i file o i progetti per realizzarli mediante una stampante 3D) senza specificare nel contratto la limitazione nella destinazione dei pezzi al solo scopo di riparazione di prodotti originali.

Neppure può operare la clausola di riparazione per discriminare la realizzazione mediante la stampa in 3D degli accessori, ossia gli elementi “variabili” dell’aspetto del bene, che non vengono imposti dal costruttore, ma sono suscettibili di scelta da parte del consumatore al momento dell’acquisto, e cosiddetti “consumabili”, e cioè gli elementi del prodotto che vengono sostituiti non (solo) nell’ipotesi di rottura, ma periodicamente, a meno che, in base a una valutazione caso per caso, si ponga una reale esigenza di ripristino dell’aspetto estetico originario del prodotto nel suo complesso.
Stampa 3D e segni distintivi
L’art. 241 C.P.I. non costituisce invece una limitazione neppure all’azionabilità dei diritti sui marchi (registrati e di fatto), cosicché la stessa disposizione non può a rigore essere invocata al fine di sostenere la legittimità della realizzazione mediante la stampa in 3D di componenti per la riparazione del prodotto originario che incorporino il marchio del produttore. Infatti, anche se il ricambio è venduto con un disclaimer che lo indica come “non originale”, l’apposizione del marchio determina quanto meno un agganciamento alla fama dell’impresa titolare del marchio e dei suoi prodotti, e va quindi ritenuto illecito.
In ogni caso, poi, anche per marchio e altri segni distintivi e per disegni e modelli è possibile qualificare come illecita la contributory infringement, sostanzialmente sulla base dei medesimi presupposti che valgono per la contraffazione brevettuale: dunque, chi fornisca i file o i progetti che permettono la riproduzione mediante stampante 3D di un prodotto la cui forma sia tutelata come modello o come segno distintivo, ovvero che comporti la riproduzione di un marchio o di un altro segno distintivo, non potrà andare esente da responsabilità.
La configurabilità della contributory infringement anche in relazione a diritti di proprietà intellettuale diversi dal brevetto deve ritenersi sostanzialmente pacifica: in particolare in materia di diritto d’autore si può ricordare una decisione della Cassazione Penale, relativa ad un noto caso di download illegale di opere protette dal diritto d’autore per mezzo di un sistema c.d. peer to peer.
Dunque, anche in questo caso gli strumenti per difendere le creazioni del design dell’illuminazione ci sono: occorre però essere consapevoli dei limiti e delle criticità che si sono indicate e operare di conseguenza, attivandosi tempestivamente (fine prima parte)
(Avv. prof. Cesare Galli – Studio IP Law Galli, Milano)