
La qualità della naturalezza è un valore oggi difficile da far passare nell’immagine fotografica nel cinema, e sono pochi i direttori della fotografia capaci di orientare la ricerca nel proprio lavoro in coerenza a questo tipo di contenuto. Uno di loro è sicuramente Matteo Cocco

La freschezza di ispirazione unita ad una volontà di andare in profondità rispetto alle storie da raccontare, sempre in una stretta collaborazione con gli autori e i registi con i quali ha modo di lavorare, si pone a caratterizzare il lavoro di un direttore della fotografia italiano, ma già molto ricco di esperienze e numerose collaborazioni in ambito europeo come Matteo Cocco.
L’Italia per la formazione al Centro Sperimentale di Cinematografia e poi – dal 2008 – la Germania per l’attività professionale sviluppata nello specifico cinematografico, hanno condotto oggi Cocco a costruirsi anche nel nostro Paese un suo approccio personale al lavoro sull’immagine, a partire da una collaborazione con il regista Giuseppe Gaudino per il film uscito nel 2015 “Per amor vostro”, dove l’intreccio narrato nel film è sorretto da un solido lavoro risolto sulla scelta del bianco e nero.
La crescita e la definizione di questo percorso di naturalezza poi si evolve ancora – attraverso la collaborazione con il regista Stefano Mordini per “Pericle il Nero” – sviluppando il risultato concreto di una transizione della qualità dell’immagine dal taglio documentario alla narrazione in soggettiva della realtà.
E oggi il lavoro dal quale vorremmo partire nella nostra conversazione con Matteo Cocco riguarda proprio, nel suo ultimo lavoro, la narrazione in immagini in chiave biografica delle vicende esistenziali di un testimone scomodo dell’arte.
Graduare l’uso del colore: l’utilizzo calibrato di sorgenti a incandescenza e dei filtri di conversione
La luce sul set nasce sempre dal personaggio che il film racconta. Mi viene questa considerazione davanti al tuo lavoro come DoP per il film di Giorgio Diritti sulla vita di Ligabue, “Volevo nascondermi”. Nella fotografia del film c’è tutto il colore naturale della terra, il colore che esce dal buio dell’emozione, il colore del sogno e la breve illusione della festa, il chiaroscuro dell’isolamento e del rifiuto: le immagini della vita attraverso il filtro dello sguardo di Antonio Ligabue. Una parabola esaltante e insieme disperata rappresentata da un’immagine che la regia vuole reale e allegorica al tempo stesso. Quali sono state le tue scelte in materia di illuminazione sul set, negli interni e negli esterni, per restituire quei contrasti così forti e pieni all’immagine?
“Per il film “Volevo nascondermi” ho scelto di utilizzare esclusivamente soluzioni di illuminazione con lampade ad incandescenza, sia per il giorno che per la notte, in interno ed in esterno.

Queste sorgenti luminose sono le uniche che restituiscono lo spettro nella sua completezza e sono la mia prima scelta per la rappresentazione delle sfumature di colore sullo schermo. Ho utilizzato in abbondanza degli illuminatori con 8 o 16 lampade Aircraft da 650 W. Pur avendo una potenza più bassa rispetto alle PAR 64, le lampade Aircraft hanno una resa tagliente ed incisiva.
Applicando una gelatina di correzione per le scene diurne, sono pressoché indistinguibili dalla luce del sole. In altre situazioni, l’uso di gelatine colorate può invece dare vita ad altri colori presenti sulla scena o addirittura trasformare interamente l’ambiente”.
Parliamo per un momento della fase contingente, purtroppo ancora in corso, legata alle conseguenze anche sul mondo della produzione cinematografica della pandemia da Covid-19. Quale è stata e qual è la tua esperienza in tal senso e come hai gestito il tuo lavoro e la tua attività sul set in relazione a ciò?
“La situazione attuale ha purtroppo portato all’arresto della produzione cinematografica che ora, dopo svariati mesi e con grande fatica, sta tentando di ripartire. Il lavoro sul set in sé non cambia, ma cambiano le dinamiche di realizzazione dei progetti, in quanto si devono rispettare alcune regole per permettere di lavorare in sicurezza. Sul piano del concept progettuale, il mio approccio alla luce resta comunque invariato”.
La naturalezza del racconto quotidiano
Nel tuo lavoro con un altro regista, il kosovaro Visar Morina, per un lungometraggio di qualche anno fa, “Babai” (Mio Padre), abbiamo un’altra intensa lettura del rapporto fra un padre e un figlio sullo sfondo di un paese disgraziato e difficile dove il quotidiano sembra filtrato da una luce diffusa ma fredda, riscaldata solo dal contrasto fra la luce del giorno e il colore livido e artificiale delle scene notturne. Anche in questo caso vuoi raccontare ai nostri lettori nel dettaglio come hai illuminato il set?
““Babai” è stato per me una sfida nel confrontarmi con un altro paese, un’altra cultura e un’altra storia. Sono stati necessari diversi mesi di preparazione e ricerca per raggiungere il risultato visibile nel film.

Anche qui, in modo analogo a “Volevo Nascondermi”, ho scelto esclusivamente sorgenti ad incandescenza, integrate a volte da apparecchi di illuminazione con lampade ai vapori di sodio o mercurio. Quasi tutte le scene diurne in esterni sono state girate utilizzando e lavorando esclusivamente con la luce naturale.
Per gli esterni notte le luci al sodio sono andate ad integrare quelle diegetiche dei lampioni stradali preesistenti sul set. In generale ho cercato di seguire un approccio molto naturalistico e decisamente minimalista, anche per lasciare spazio e libertà al bambino protagonista del film”.
Un’altra prova interessante è quella che hai portato avanti nella tua collaborazione con Silvio Soldini nel 2017 per “Il Colore nascosto delle cose”, dove la tua fotografia si è posta alternativamente come sguardo dalla parte dei due protagonisti, Adriano Giannini e Valeria Golino, a raccontare due ‘visioni’ diverse del mondo che si scontrano e si ricombinano insieme… “
“È stato un film estremamente stimolante ed affascinante, grazie anche all’opportunità di collaborare con un maestro quale Silvio Soldini, da cui ho imparato moltissimo. La strategia visiva del film è stata in fondo molto semplice, anche se c’è voluto molto tempo per arrivarci.

Il mondo dei due protagonisti è lo stesso, solo che il loro sguardo è diverso. Di conseguenza non ho scelto strategie particolarmente differenti per illuminare i set dei due personaggi principali. La luce è molto realistica ed include proiettori con lampade a scarica (daylight), luci a incandescenza e i più moderni pannelli LED.
La reale distinzione tra i due mondi dei protagonisti è avvenuta ed è stata affidata in prevalenza all’utilizzo di due serie differenti di obiettivi in fase di ripresa”.
Per un biopic la luce dell’attualità
Un’ultima ma non meno interessante esperienza, dal punto di vista della tua lettura d’immagine, è quella che hai realizzato con “Sulla mia pelle”, il biopic con Alessandro Borghi sugli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi realizzato con la regia di Alessio Cremonini nel 2018. Qui c’è a mio avviso un grande lavoro sul colore dell’immagine che traduce una visione notturna molto contrastata che esplora ancora una volta tutti i gradienti ‘cromatici’ del bianco & nero. Ci vuoi parlare della tua esperienza sul set per quanto riguarda le scelte di illuminazione e del lavoro sviluppato sul colore?
“La sfida di “Sulla mia pelle” è stata principalmente quella di trasformare un fatto di cronaca in un’esperienza visiva e universale. Molti sono i riferimenti pittorici che hanno influenzato la mia luce e la composizione delle immagini.

La luce utilizzata è molto tradizionale e sempre coerente con gli ambienti in cui è ambientato il film. Ho fatto ricorso all’utilizzo di molte lampade al neon per uso industriale, che “sporcavano” l’immagine restituendo dominanti di colore in un certo “sbagliate”.
Cruciale è stato sul set il posizionamento di queste luci, proprio per restituire dei forti contrasti ispirati alla fotografia in bianco e nero. Sul volto di Cucchi-Borghi non si vedono quasi mai gli occhi, è come se fosse uno scheletro ancora prima di morire”.
(a cura di Massimo Maria Villa)