
Uno spazio che propone una serie di casi esemplari della relazione fra luce e design, declinati ogni volta da una parola guida
PAROLA GUIDA: Landmark urbani
I cittadini senzatetto e senza fissa dimora, in genere dotati di una non comune conoscenza degli spazi urbani e della qualità abitativa di anfratti pubblici e luoghi di risulta, trovano
rifugio notturno a Roma in una zona relativamente centrale, sotto il portico delle Poste di Piramide, nei pressi della Stazione Ostiense.

Progettato da Adalberto Libera e Mario De Renzi nel 1933, in seguito a un concorso pubblico, il Palazzo delle Poste all’Aventino segnò la breve stagione del razionalismo romano, aprendo speranze di rinnovamento dell’architettura nella capitale, rifluite pochi anni dopo nel mito dei fasti imperiali.
Monumentale senza essere retorico, il volume architettonico in travertino delle Poste dialoga con la purezza formale della Piramide Cestia e delle torri cilindriche di Porta San Paolo; verso sudovest lo spazio a corte è chiuso da un lungo portico, che raccorda in un fronte unitario le due testate tronche, caratterizzate dai celebri tagli diagonali.
Non si tratta solo di un elemento architettonico, ma di un landmark nel territorio della città, un dispositivo urbanistico perché con i suoi 78 metri di lunghezza e le sue 9 campate, il portico raccorda idealmente – dal punto di vista pedonale – le aree di San Saba e Ostiense con Testaccio.
Negli anni ’70, tradendo il progetto originario, il rivestimento venne sostituito con pietra bianca, ma nel 2000 un accurato restauro filologico ripristinò il rivestimento lapideo nero. Il portico, rivestito in porfido nero-violaceo di Predazzo – ha scritto Tullia Iori – “… brilla con la sua lucidatura a piombo contrastando la polverosa trama opaca del travertino.”
L’architettura pensata come segno di luce

Al piano terra, la grande sala per il pubblico è illuminata in modo eccellente da un’alta lanterna in vetrocemento, all’esterno il rivestimento nero e lucido del portico – che insiste sul lato di maggior esposizione solare – svolge anch’esso una funzione illuminotecnica, attenuando, per chi esce dalle poste e lo percorre, il riverbero del meriggio latino; il soffitto del portico, nero e lucido anch’esso, specchia l’intera struttura e ne raddoppia percettivamente l’altezza.
Di notte il soffitto continua a svolgere un suo ruolo, perché riflette la luce delle lampade in vetro opalino a plafond: ne risulta, per effetto di luminanza, una luce gradevole e accudente.

L’architettura qui è pensata, nel suo insieme, come un segno di luce, un vero e proprio landmark urbano. Nonostante Roma – per varie e complesse ragioni – rimanga una città male illuminata e percorrerla a piedi lasci l’impressione di un costante e imminente coprifuoco, i senzatetto che dormono sotto il portico dell’Ufficio Postale Ostiense, a parte gli altri disagi esistenziali, godono dell’ottimo comfort illuminotecnico notturno di uno spazio rassicurante e accogliente.
Se, come insegnavano gli artefici del Living Theatre e del teatro povero di Jerzy Grotowski, bisogna sempre essere disposti a imparare dalla strada, potremmo proporci di imparare qualcosa da questo capolavoro dell’architettura, nonché pratico luogo di soggiorno notturno.
Un primo insegnamento: in ambito urbano, la luce non ha mai un significato in sé stessa, ma in relazione allo spazio costruito; la luce cioè dovrebbe accompagnare, suggerire, indicare sensi di attraversamento, luoghi di sosta, diventare landmark, segno urbano.
Un secondo spunto: non dovrebbe esistere una separazione così netta tra l’illuminazione pubblica e quella privata. Un edificio, se assolve a funzioni pubbliche, può diventare parte di un progetto di illuminazione integrata pubblico-privato.
Un altro insegnamento è che ogni parte di città necessita di un suo specifico progetto di illuminazione e ciò che appare irrisolvibile a livello di sistema generale – per vastità e complessità di situazioni, ed è il caso di Roma – diventa affrontabile per parti, anche molto piccole e specifiche di città.
Il corollario è che la luce, specialmente in ambito urbano dovrebbe diventare oggetto di numerosi e variegati progetti, possibilmente frutto di concorsi pubblici.

Il progetto della luce in questo modo acquisterebbe importanza, susciterebbe interesse nei cittadini, diventerebbe oggetto di discussioni e azioni partecipate, di prototipazioni sperimentali su alcune aree, in relazione ad alcune specifiche esigenze: i bisogni dei Re di Roma e di Furio Camillo non sono quelli di Caracalla.
A Roma, inoltre, esiste un Centro sperimentale di cinematografia in cui si insegna non solo regia e recitazione, ma anche direzione della fotografia. Come cinque anni fa per l’illuminazione dei Fori Imperiali la collaborazione tra un grande autore della fotografia (Vittorio Storaro) e una lighting designer (Francesca Storaro) ha dato vita a una buona sinergia progettuale, forse per la capitale si potrebbe immaginare di mettere nuovamente alla prova anche direttori della fotografia e lighting designer su altre tipologie d’interventi, magari non limitati ai soli apparati monumentali.
(a cura di Dario Scodeller – critico e storico del design, Venezia)