
La conservazione di opere d’arte, di manufatti architettonici di grande interesse
storico, economico e culturale e di ambienti ipogei di rilevanza naturalistica
(come nel caso delle grotte turistiche) ha sempre rappresentato una sfida per chi
è delegato alla loro gestione e manutenzione
In siti particolari come quelli rappresentati dalle grotte turistiche, le caratteristiche ambientali di umidità e calore, la presenza di componenti chimici e/o biologici potenzialmente aggressivi e gli impianti di illuminazione necessari per la fruizione delle opere sono alla base dei possibili processi di danneggiamento. Tra gli organismi responsabili del biodeterioramento, i microrganismi fotosintetici – che proliferano grazie alla luce – rappresentano la più diffusa e pericolosa minaccia, sia per via della loro accesa pigmentazione che per i prodotti del loro metabolismo.
I danni provocati possono essere di tipo diverso, sia di natura estetica che strutturale. La crescita di alghe, funghi o licheni, ad esempio, oltre a modificare esteticamente l’opera, con la sovrapposizione di formazioni vegetali, può causare danni strutturali per effetto della penetrazione delle cellule all’interno del substrato, mentre la proliferazione di alghe, funghi e batteri può provocare danni indelebili di tipo chimico in seguito al rilascio di sostanze ossidanti o riducenti.
Ambienti di particolare interesse come grotte turistiche, catacombe, siti archeologici antiche ville o chiese, specie se riccamente decorate, sono tra i siti più vulnerabili a questo tipo di aggressioni. Dopo anni di interventi di manutenzione e pulizia con l’utilizzo di agenti chimici, con i quali si intendeva “pulire” le superfici cercando di mantenerne quanto più inalterata possibile la struttura e l’aspetto, è ora convinzione comune che tali mezzi siano inadeguati, sia per la loro ridotta efficacia sia per la loro potenziale aggressività. Si è quindi alla ricerca di nuovi sistemi e tecnologie meno invasive, in grado di preservare sia la fruibilità turistica che l’integrità delle strutture interessate.
Un caso esemplare di come il biodeterioramento possa essere causa di danni assai gravi è costituito dalle famose grotte di Lascaux, oggi inserite nell’elenco dei Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.
Queste grotte, scoperte nel 1940, subito dopo la loro apertura al pubblico, nel 1948, costituirono un centro di forte attrattiva turistica per effetto delle straordinarie pitture e disegni di grandi animali, risalenti a un periodo compreso tra 15.000 e 17.000 anni fa, che ne ricoprono le pareti e le volte (vedi apertura, figura 1).
Già nel 1955, quindi solo 7 anni dopo la loro apertura al pubblico, ci si accorse però che le variazioni del microclima dovute al gran numero di visitatori, insieme alla inevitabile illuminazione artificiale, avevano visibilmente danneggiato le pitture rupestri (figura 2).

Nel 1963 le grotte vennero definitivamente chiuse al pubblico e i dipinti vennero restaurati al loro stato originale, con costi elevatissimi. Una variabile che normalmente non viene presa in considerazione nella conservazione di ambienti normalmente non raggiunti dalla luce solare o dove questa, come nel caso di alcune strutture particolari, viene volutamente schermata, è l’illuminazione artificiale. Gli impianti di illuminazione, infatti, sono solitamente progettati e realizzati senza tenere conto delle caratteristiche fisiologiche degli organismi presenti e spesso ne favoriscono la crescita e l’attività metabolica.
Dallo studio delle caratteristiche funzionali dei sistemi di utilizzo della luce da parte dei fotolitotrofi, è invece possibile derivare informazioni utili allo sviluppo di sistemi di illuminazione atti a ridurre al minimo il potenziale di crescita e di produzione di sostanze aggressive per il substrato da parte di questi organismi.
Uno studio accurato dei sistemi di ricezione della luce dei microrganismi fotosintetici può consentire di mettere a punto apparecchi e sistemi di illuminazione che – con tagli mirati e limitati in alcune componenti spettrali – consentano il controllo della proliferazione degli organismi indesiderati, senza avere un impatto eccessivo sulla qualità della luce percepita dall’occhio umano.
La Antrox, società specializzata nella produzione di lampade fluorescenti a catodo freddo, in collaborazione con il laboratorio di Fisiologia delle Alghe del Dipartimento di Scienze del Mare, Università Politecnica delle Marche, diretto dal Prof. Mario Giordano, ha condotto una ricerca scientifica che ha avuto come oggetto la valutazione dell’impatto sulla crescita e la fotosintesi microalgale di lampade fluorescenti a catodo freddo con differenti spettri di emissione, realizzando appositamente dei prototipi dalle caratteristiche luminose appositamente studiate (figura 3, figura 4).
La fotosintesi clorofilliana è il processo alla base di tutte le reti trofiche e attraverso il quale l’energia luminosa viene trasformata in energia chimica utilizzabile dalle piante (e dagli animali che se ne nutrono) per la loro crescita (figura 5).

E’ noto che i sistemi fotosintetici utilizzano specifiche frequenze luminose; quindi, partendo da questo presupposto, si è voluto verificare se fosse possibile realizzare una lampada che riducesse drasticamente le emissioni nelle frequenze maggiormente utilizzate dalla fotosintesi stessa (figura 6), ottimizzando, senza tuttavia disturbare, la visione delle opere illuminate.

Le prove sono state effettuate utilizzando come organismo sperimentale un’alga verde e impiegando una lampada fluorescente tradizionale a luce bianca come sorgente comparativa di controllo. Nonostante il progetto contasse su risorse limitate e sia da considerarsi solo un primo passo verso la produzione delle lampade ideali per l’illuminazioni di beni di valore artistico, storico o naturalistico, i risultati ottenuti sono stati decisamente incoraggianti.

A seguito dei test effettuati presso il Dipartimento di Scienze del Mare, si è evidenziato che – delle 3 lampade prodotte dalla Antrox – una risultava totalmente ininfluente e quindi è stata esclusa da ulteriori prove mentre, per una in particolare, il tasso di crescita algale si è ridotto del 40% rispetto a quello ottenuto con la sorgente di controllo (figura 7).
Tale risultato, seppure ancora lontano da una reale applicazione tecnica, apre scenari interessanti e rappresenta un primo importante passo verso lo sviluppo di lampade fluorescenti che emettano radiazioni luminose specificatamente mirate alle caratteristiche dei beni da illuminare, dell’ambiente in cui esse si trovano e del tipo di organismi che vi proliferano.

I microorganismi fotosintetici, infatti, hanno corredi pigmentali vari e utilizzano con efficienza differenti radiazioni luminose di diversa frequenza: un determinato spettro luminoso potrebbe cioè ridurre la crescita di un certo microorganismo, ma non di un altro (figura 8).
Sulla base degli esiti di questa iniziale sperimentazione, sembra assai probabile che studi più approfonditi ed estesi ad un numero più ampio di organismi possano fornire le informazioni necessarie allo sviluppo di sistemi di illuminazione capaci di ridurre sostanzialmente i problemi associati alla proliferazione di microorganismi fotosintetici.
Nell’esempio già fatto delle Grotte di Lascaux, appare lecito ritenere che l’utilizzo di lampade con adatte emissioni luminose avrebbe ridotto il deterioramento delle pitture, pure in presenza dello stesso numero di visitatori. Il sasso è stato lanciato e una piccola, prima risposta scientifica è stata ottenuta. La strada è certamente ancora lunga e piena di ostacoli; tuttavia, la riduzione della proliferazione di organismi potenzialmente dannosi per opere e materiali sensibili mediante il controllo della qualità e quantità della luce emessa dagli impianti di illuminazione artificiale sembra possibile e auspicabile.
(a cura di Daniele Traferro, Presidente – Antrox, Ancona)