Food & Lighting

Marchi di luce e diritto d’autore per il cibo in vetrina e nel piatto

 

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Brand di prodotto e display di presentazione: il rapporto tra luce e Brand non è una novità, anche se negli ultimi anni il valore simbolico e comunicativo dell’illuminazione è cresciuto in modo straordinario: basti pensare all’Albero della Vita all’Expo di Milano 2015

Già più di vent’anni fa alcuni studiosi tedeschi avevano ipotizzato l’esistenza di veri e propri marchi di luce, e sullo stesso tema da noi si era interrogato Stefano Sandri, forse il più attento osservatore ed interprete dei “nuovi” segni distintivi emersi dalla realtà del mercato.

Se la luce è in grado di tracciare disegni nel buio, giochi di chiaro e scuro, successioni di elementi luminosi, e dunque di creare delle immagini può anche dare vita a marchi quando queste immagini diventano segni, ossia portatori di un messaggio che il pubblico riconduce univocamente ai prodotti o ai servizi di un determinato imprenditore, come avviene, ad esempio, per i marchi sonori. Ciò che conta è innescare un processo di “familiarizzazione” (come lo ha chiamato la Corte di Giustizia europea), per effetto del quale la percezione del pubblico riguardo a questi segni luminosi cambia ed essi diventano per i consumatori richiamo ad uno specifico produttore o ad un suo particolare prodotto.

Ciò assume particolare rilievo soprattutto nell’ambito della pubblicità, ma è chiaro che anche la peculiare “presentazione luminosa” di un prodotto, abitualmente collocato nei negozi con una precisa forma di illuminazione, può assumere la valenza di segno distintivo; e oggi, con la nuova disposizione introdotta dal Regolamento sul marchio dell’Unione Europea in vigore dal marzo 2016 (prossima ad essere adottata anche dal legislatore nazionale, in attuazione della corrispondente Direttiva europea), può anche diventare suscettibile di registrazione, e non più solo di tutela come marchio di fatto, dato che in base alle nuove norme la riproduzione del segno, necessaria per la registrazione, può essere effettuata anche con mezzi diversi da quello grafico, ad esempio con un filmato.

Un campo nel quale le applicazioni di questa nuova protezione possono diventare particolarmente significative è quello del Food Lighting: sia come segno autonomo, sia come mezzo per conferire maggiore efficacia ad un Brand “tradizionale”, o per enfatizzare l’esposizione o la presentazione del prodotto. Anche quando non assurga a vero e proprio segno distintivo, l’illuminazione del prodotto, e in particolare quella dei prodotti alimentari o dei piatti cucinati e offerti in vendita nell’ambito di servizi di ristorazione, può infatti risultare meritevole di protezione sotto altri aspetti.

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Già si era ricordato, in occasione di un precedente intervento su questo tema proprio in occasione di Expo, che possono essere anzitutto tutelabili i mezzi per realizzare l’illuminazione, quando siano peculiari e idonei a risolvere in modo non banale un problema tecnico, o a fornire una particolare efficacia o comodità di applicazione o impiego a sistemi di illuminazione già esistenti. In questi casi si può infatti ricorrere alla protezione brevettuale per invenzione nel primo caso (soluzioni innovative non alla portata dell’esperto del ramo) con durata di 20 anni; per modello nel secondo (forme particolarmente efficaci) con durata di 10 anni.

In particolare la seconda ipotesi sembra in effetti percorribile, a fronte di apparati di illuminazione “pensati” specificamente per mettere in rilievo le particolarità dei prodotti gastronomici, senza alterarne le caratteristiche organolettiche e la piacevolezza visiva, ed anzi cercando di esaltare quest’ultima.

In determinati casi la protezione adeguata potrà essere addirittura quella di diritto d’autore, ipotizzabile, almeno in astratto, quando una particolare forma di illuminazione assuma una valenza creativa. A tal fine non è neppure richiesto un particolare gradiente di valore artistico: solo per le opere dell’industrial design questa tutela di diritto d’autore è subordinata (discutibilmente) al requisito del valore artistico, mentre ogni altra opera (e l’art. 2 della legge ne contiene un elenco non esaustivo, ma solo esemplificativo) è tutelabile in presenza della sola creatività.

Non si deve dimenticare, a questo proposito, che la tutela di diritto d’autore comprende anche il diritto di riproduzione (compresa la fotografia: l’esclusiva sulle fotografie o sui filmati delle installazioni è la tipica forma di sfruttamento economico delle medesime da parte del titolare dei diritti) e quindi offre agli autori la possibilità di vietare ogni replica dell’opera, anche in una forma “diversificata” che ne costituisca un’elaborazione, anche creativa.

Non è invece vietato prendere semplicemente spunto da una creazione per realizzarne un’altra autonoma, ed ovviamente il confine è sottile: si ha elaborazione, e non creazione autonoma seppure “ispirata” a quella anteriore quando di questa vengano ripresi almeno in parte gli elementi espressivi (non, si badi, l’idea, che non è monopolizzabile col diritto d’autore), mentre è sempre consentito trarre ispirazione da essa, ovvero riprenderne elementi generici o di carattere non espressivo, come lo stile e la situazione di base.

Il discrimine tra i due casi può essere più difficile quando si discuta di un’installazione, ma è chiaro che non possono essere ripresi proprio gli elementi rappresentativi di essa, come la disposizione delle luci diretta a creare un particolare effetto. Prima ancora, però, si deve stabilire chi sia il titolare di questi ipotetici diritti d’autore.

L’art. 10 della legge sul diritto d’autore stabilisce infatti che “Se l’opera è stata creata con il contributo indistinguibile ed inscindibile di più persone, il diritto di autore appartiene in comune a tutti i coautori. Le parti indivise si presumono di valore uguale, salvo la prova per iscritto di diverso accordo”.

Alla comunione partecipano peraltro solo i soggetti che abbiano apportato un reale contributo creativo, non quelli che abbiano semplicemente messo a disposizione i mezzi tecnici con cui l’opera è stata realizzata o l’abbiano messa in opera seguendo indicazioni altrui; inoltre, se l’opera consti di più contributi creativi aventi carattere di creazioni autonome, non si applica la disciplina della comunione, ma sussiste l’ipotesi dell’opera collettiva, di cui è considerato autore (e titolare dell’esclusiva) chi abbia organizzato questi diversi contributi, fermo restando che egli abbia avuto il consenso degli autori delle singole parti all’inclusione nell’opera.

Problemi analoghi si presentano per i marchi di luce: se è vero che il segno luminoso diventa marchio solo per effetto dell’uso “distintivo” di esso, che può essere solo quello realizzato dall’imprenditore che lo usi per contraddistinguere i suoi prodotti o servizi, è necessario che questi si sia preventivamente procurato il consenso dei soggetti che questo segno luminoso hanno ideato e realizzato, acquisendo diritti su di esso “in quanto tale”, cioè a prescindere dal suo eventuale uso come Brand.

Anche sotto questo profilo, rimane vero ciò che Luce e Design scriveva già nel 2015 (n. 2 aprile), e cioè che risulta decisiva un’adeguata disciplina contrattuale preventiva di queste creazioni, per evitare conflitti tra i vari soggetti che vi abbiano contribuito, che potrebbero minare l’efficace protezione contro gli sfruttamenti di esse da parte di terzi non autorizzati: il che rende opportuno, ancora una volta, il coinvolgimento di un legale con specifiche competenze nel diritto della proprietà intellettuale.

(Avv. Prof. Cesare Galli, Studio IP Law Galli, Milano)