
La luce, naturale o artificiale, ha un ruolo determinante nell’esperienza del visitatore di un museo e le circostanze e le condizioni che consentono di raggiungere la migliore illuminazione sono molteplici.
Tanto più lo spazio espositivo è di alto valore storico e artistico, maggiore diventa l’impegno a fornire un’adeguata illuminazione sia delle opere d’arte come dipinti mobili e sculture, che dello spazio monumentale come pitture murali, particolari architettonici e decorazioni.
L’illuminazione prodotta da sorgenti luminose artificiali non dovrebbe mai essere forzata, ovvero non dovrebbe mai spingersi a raggiungere tecnicismi – certamente possibili al giorno d’oggi – che arrivano però ad escludere la naturale percezione degli oggetti e dei luoghi illuminati.
Le conseguenze di un approccio di questo tipo sono appunto innaturali se non caricaturali, come nel caso dello scontornamento dei quadri, tale da farli apparire entità di per sé luminescenti, quasi fossero schermi retrolluminati, oppure nella sottolineatura di strane ombre portate dai rilievi architettonici e scultorei di facciate.
Assodato quindi il rispetto delle soglie di illuminamento in sicurezza – per doverose ragioni conservative nel contrastare ogni deperimento delle opere d’arte dovuto alla radiazione luminosa – si abbia ben presente quanto l’atto di illuminare sia un atto interpretativo che inevitabilmente condiziona la visione e la percezione del visitatore nei confronti dell’opera esposta.
Ne deriva la grande responsabilità della direzione del museo che oggi, maggiormente,
avvalendosi delle più recenti tecnologie LED prima inimmaginabili, interviene ed influisce in modo determinante sull’appearance di un dipinto o di una scultura.
Alla base delle scelte adottate tuttavia non può che esservi una forte e fondata consapevolezza critica del curatore sui significati e valori dell’opera da illuminare. La presenza e la giusta valorizzazione della luce esterna naturale che può scendere dai lucernari o provenire dalle finestre, opportunamente controllata e dosata, è da considerare sempre elemento assai prezioso, del quale se ne è fatto un attento utilizzo nei rinnovati recenti allestimenti agli Uffizi.
Va da sé il ruolo ed il valore di un’apertura rivolta verso la luminosità del giorno, non solo come tramite emotivo fra ambiente interno ed esterno, ma nel contesto specifico della nostra Galleria medicea come incomparabile veduta e comprensione del paesaggio della città storica e delle colline che la circondano.
Ormai anche nel caso di esposizioni temporanee dovrebbe essere superato il concetto di un’illuminazione totalmente artificiale, sempre uguale e costante, fissata su determinati valori e forse per questo ritenuta ideale. Già a metà degli anni Cinquanta Giulio Carlo Argan avvertiva come l’illuminazione del tutto artificiale utilizzata nel museo diventasse uguale a quella ferma e immobile di un “acquario”.
Nulla più delle parole di Louis I. Khan – che fece della luce naturale il tema architettonico del suo capolavoro, il Kimbell Art Museum di Forth Worth (1972) – potrebbe meglio esprimere questi concetti: “We knew that the museum would always be full of surprises. The blues would be one thing one day; the blues would be another thing another day, depending on the character of the light. Nothing static, nothing static as an electrical bulb, which can only give you one iota of the character of light. So the museum has as many moods as there are moments in time, and never as long as the museum remains as a building will there be a single day like the other. So this is a kind of invention that comes out of the desire to have natural light. Because it is the light the painter used to paint his painting. And artificial light is a static light…”
Eike Schmidt
Antonio Godoli