
Un’altra storia, un’altra cultura e un’altra luce con differenti colori per raccontare la Mauritania – repubblica al confine fra il mondo arabo dell’Africa del nord e l’Africa ‘Nera’ subsahariana – e la condizione della donna e l’egemonia dell’uomo nella cultura islamica.

Temi delicati, come il lieve tocco di Michela Occhipinti, che – dopo il documentario del 2010 ‘Lettere dal deserto (elogio della lentezza)’ – dirige con ‘Il corpo della sposa’, un film dichiaratamente a metà fra finzione e cronaca.
Nel film si racconta come – secondo la tradizione – le donne prima di sposarsi dovevano ingrassare in una notte. Si montava una tenda nel deserto e si sgozzava e cucinava un capretto. Oltre a mangiare l’intero capretto la promessa sposa doveva bere 16 litri di latte. E se vomitava, doveva mangiare anche il vomito. Le più deboli soccombevano. ‘Così è morta mia sorella’, dice la madre a sua figlia Verida (l’attrice esordiente Verida Beitta Ahmed Deiche), la ragazza protagonista del film.

Nel film la violenza di questa primitiva tradizione si manifesta nel bestiale dolore/colore delle immagini del macellaio: la soggettiva di Verida ci comunica che quel coltello, oltre a fare a pezzi il capretto, sta facendo a pezzi la sua anima. La ribellione è dichiarata: Verida getta nel water l’ennesimo pranzo preparato dalla madre. Questo è il progresso, non accetta di essere sposa di una persona che nemmeno conosce e di doversi sottomettere al rito del ‘gavage’, l’alimentazione forzata per arrivare al giorno del matrimonio, nel giro di qualche mese, anche con venti chili in più. Perché così le donne nella cultura Mauri sono più ‘appetibili’. Pasto dopo pasto, il matrimonio si avvicina. Verida, però, mette in discussione tutto ciò che ha sempre dato per scontato: i suoi cari, il suo modo di vivere. E il suo stesso corpo. E si allontana sempre di più da quel mondo che, forse, non sente più – o non ha mai sentito – come suo. La leggerezza della sua anima e la sua sensibilità è tutta compresa nel suo sguardo, al contempo melanconico e vivace.

Un approccio impressionista per l’immagine del film
‘Grazie.’-‘Grazie di cosa?’- ‘Di avermi guardata.’ È il dialogo fra Verida e Sidi, il ragazzo che ogni giorno viene a casa sua per pesarla. Un flirt accennato, timido, dolce. Un’ impressione di sentimento. È un lavoro ‘impressionista’, un lavoro letteralmente fotografico – capace cioè di catturare la luce, come farebbe un fotografo still (pensiamo per esempio ad Alex Webb, a ‘Violet Isle: A Duet of Photographs from Cuba’) – il lavoro della DoP Daria D’Antonio, una prevista rivelazione nel panorama della fotografia cinematografica italiana. Ha esordito come direttore della fotografia nel 2010 con ‘Hai paura del buio’, di Massimo Coppola. E ha finito da poco le riprese dell’ultimo film di Paolo Sorrentino ‘È stata la mano di Dio’.
Il lavoro sulla luce è tutto impostato sulla ricerca di una sintesi tra realismo documentaristico e ricchezza visiva. Come sei arrivata a codificare il mood, l’atmosfera del film?
‘L’esigenza di essere poco invadenti per permettere agli attori tutti non professionisti di sentirsi a proprio agio ha determinato la scelta dell’uso della luce naturale e diegetica. Ho cercato l’ispirazione osservando il luogo e le condizioni degli interni che avevo visto durante i sopralluoghi e attraverso il confronto con Michela e la sua visione.’
Il tuo e quello di Michela è uno sguardo delicato, lieve, tutto in sottrazione..
‘Lo sguardo di Michela è quello di una donna straordinariamente dotata di grande sensibilità. Ha girato il mondo e la sua attitudine al continuo confronto fra realtà e culture diverse fa di lei una osservatrice attenta e priva di pregiudizi. Già in sceneggiatura si evidenziava come avrebbe voluto muovere la macchina da presa.
La macchina a mano, per esempio, è stata utilizzata soltanto in determinate scene, quando Verida è sola e vive la sua angoscia. Il mio e il suo respiro hanno spesso cercato lo stesso ritmo.’
La Mauritania e il set: fra i vincoli delle tradizioni e il desiderio di emancipazione
La Mauritania è una repubblica islamica che impone regole religiose molto rigide, dove, per esempio, l’alcol è vietato e l’apostasia è punibile con la morte. Dove il matrimonio, anche se imposto, è visto come un passaggio necessario per il sesso e dove il divorzio è però ammesso e consentito, tanto da rappresentare uno dei paesi arabi con il più alto tasso di divorzi. Una realtà fatta di contraddizioni, strade di sabbia insieme a cellulari, vecchi uomini ancora a caccia d’oro e giovani donne decise ad emanciparsi. Dove forse sono i vincoli della tradizione che obbligano alla distorsione del proprio corpo e sollecitano il passaggio culturale per mettere in discussione se stessi.

Come avete scelto la Mauritania da raccontare nel film?
‘Abbiamo fatto dieci giorni di scouting a Nouakchott, la capitale, tre mesi prima delle riprese. Abbiamo trovato la location principale, ho accompagnato Michela ad acquistare gli abiti di scena, ho studiato la luce del posto e iniziato a stabilire un contatto con i protagonisti del film, con una completa immersione nella realtà. Questi giorni di ricerca sono stati un ottimo punto di partenza.’
Anche se piccola, non deve essere stata una produzione semplice..
‘Ricordo con affetto ogni scena che abbiamo girato. Non è stato facile, ma è stata un’esperienza meravigliosa. La mancanza di mezzi mi ha messo in una condizione interessante: la casa di Verida, ad esempio, non mi offriva la possibilità di poter intervenire con luci esterne o controllare la luce diretta, quindi è stato fondamentale decidere quali dovessero essere gli orari migliori. Non sempre è andata come volevo, spesso le attrici erano in ritardo, le ultime settimane di riprese sono coincise con il Ramadan, ma siamo sempre riusciti ad ottenere il risultato sperato con l’ausilio di soluzioni semplici ed artigianali.’
Una su tutte…la lampada a forma di cuore che conforta Verida nelle sue notti insonni..
‘È stata una folgorazione. Quando l’abbiamo vista abbiamo capito che sarebbe stata un elemento importante e che avrebbe potuto aiutarmi nelle scene notturne perché la stanza si trovava al primo piano e non avevo nessun mezzo per riuscire ad illuminare a quell’altezza. La lampada l’abbiamo trovata girando nel quartiere delle forniture elettriche durante i sopralluoghi. Quando abbiamo scoperto che cambiava colore, poi, è stata un’epifania!’

La tecnica: la MdP, le ottiche, l’illuminazione sul set, i colori
‘Come macchina da presa ho scelto la Red Dragon 6K e come ottiche le Zeiss Superspeed T 1.3. ed un Canon 300 mm T 2.8. Dal punto di vista dei filtri, solo gli ND (NdR: i filtri Neutral Density, ovvero i filtri normalmente utilizzati per abbattere la quantità di luce e poter ricorrere, così, a diaframmi più aperti). Avevo una palla cinese e due piccoli LED, qualche stativo, un pannello riflettente bianco/silver, cavalletto e testata e uno spallaccio. I Sand Bags (NdR: sacchi di sabbia utilizzati come contrappeso per ancorare a terra i vari supporti che si utilizzano sul set) li abbiamo realizzati sul posto sfruttando il fatto di essere nel deserto del Sahara. I panni neri, per esempio, li abbiamo comprati al mercato. Di necessità, virtù, come si diceva prima..’

Come hai fatto a lavorare sui colori? On set riuscivi ad avere una visione performante della risposta fotografica?
‘Ho lavorato con LUT 709 e saturazione ridotta di 10 punti (NdR: LUT, sigla per Look up table, ovvero un metadata codificato per convertire il segnale nativo della digital camera nello spazio colore High Definition)
(a cura di Alessandro Bernabucci, education manager Shot Academy)
IL CORPO DELLA SPOSA (2019)
Director: Michela Occhipinti
Cinematographer: Daria D’Antonio
Technical specifications Camera: RED DRAGON DSMC 6K
Lenses: Zeiss Ultraspeed 1.3
Negative format: RED CODE
Printed format: DCP
Per ulteriori approfondimenti
https://www.youtube.com/watch?v=KbllEj2s5Kc
https://www.luckyred.it/movie/il-corpodella-sposa-flesh-out/