
Uno spazio che propone una serie di casi esemplari della relazione fra luce e design, declinati ogni volta da una parola guida.
Parola Guida: INTERACTIVE DESIGN
Non sono necessarie doti medianiche per prevedere come la luce modificherà il paesaggio domestico nei prossimi decenni, è sufficiente spegnere le luci per andare a letto. Ciò che rimane acceso, la luce a LED degli apparecchi, è con ogni probabilità il futuro che ci attende. La notte è abitata da occhietti elettronici che indicano la presenza di connessioni di rete: la luce gialla e pulsante, come la coda di una lucciola, di un computer in standby, la sottile unghia verde del LED di un hardware, il cerchietto barrato dell’interruttore della stampante, il puntino rosso del televisore spento, quello verde del decoder o del lettore di DVD.
Questa prospettiva dovrebbe indurre progettisti e produttori a porre l’attenzione, oramai, più che all’idea di sistema d’illuminazione come prodotto a quella di sistema come network di prodotti. “Ci sono ragioni impellenti per cui una lampadina debba avere un accesso a internet”, sosteneva alcuni anni fa, sulle pagine di “Scientific American”, Neil Gershenfeld, direttore del programma di ricerca “Internet Zero” del MIT. Se allora sembravano vaneggiamenti alla Blade Runner, oggi bisogna iniziare ad ascoltare più attentamente questi ricercatori e la loro filosofia di interconnessione, a cui la luce non rimarrà a lungo indifferente, essendo stata la lampadina, dopo il telefono, il primo dispositivo di un sistema elettrico a rete entrato nelle abitazioni.
All’ultima Biennale di Architettura di Venezia (“Out There, Architecture Beyond Building”), tale prospettiva di mutamento del paesaggio domestico ha suggerito agli autori dell’installazione Hyperhabitat di allestire un ambiente quotidiano secondo una logica di interactive design, come uno spazio connesso ad una rete interattiva.
I nodi di questo sistema a rete non erano, però, i PC, ma una moltitudine di oggetti d’uso, rappresentati da sagome in policarbonato illuminate da nastri tratteggiati di LED. Purtroppo, nello spazio un po’ eccessivamente ludico e funambolico della mostra alle Corderie dell’Arsenale, la ricerca che stava a monte non appariva di facile comprensione.
Il progetto Hyperhabitat reprogramming the World, infatti, allestito da Guallart Architects, e nato dalla collaborazione con lo Iaac (Institut d’arquitectura avançada de Catalunya) e con il Center for Bits and Atoms del MIT, si propone di sviluppare un nuovo approccio all’organizzazione dell’habitat basato sull’evoluzione delle tecniche informatiche.

Lo spazio messo in scena alla Biennale è la riproduzione di un’unità abitativa comunitaria dotata di tecnologia “Internet Zero”, dove ogni oggetto ha al proprio interno un micro-computer che gli permette di essere interconnesso tramite la rete ad altri oggetti. Ma è davvero possibile creare una comunità di utenti collegando tra di loro libri, tavoli, bidoni della spazzatura, frigoriferi, armadi, lampade?
Se l’architettura possiede un carattere sistemico e non solo iconico – sostiene Vicente Guallart – è allora possibile pensare ad un modello di comunità futura dove l’utilizzo razionale e creativo delle risorse viene favorito da questa interconnessione diffusa. In altre parole, una lampada può essere solo un bell’oggetto o anche un sistema per avere delle informazioni su come sto usando l’energia, illuminando un ambiente e il modo in cui posso riprogrammarne l’uso.
Aleggia su queste proposte il mito del networked world, ma si tratta anche di scenari che sollecitano a ragionare su cosa potrebbero essere la luce, gli apparecchi d’illuminazione, gli oggetti lampada, se pensati come nodi di un sistema interconnesso non alla scala dell’edificio, ma del territorio. L’altro aspetto interessante dell’allestimento era l’effetto ambiente generato dal rapporto tra la luce dei LED ed il policarbonato con cui erano costruite le sagome degli oggetti.
Hyperhabitat mostrava un ambiente onirico, ectoplasmatico, in cui ogni singolo oggetto era animato da una luce propria: la profezia di uno spazio nel quale non serviranno più lampade per illuminare la casa. E’ esattamente ciò che pensiamo quando, la notte, raggiungiamo il bagno senza dover più accendere la luce, guidati dagli occhi a LED degli animaletti domestici che popolano le nostre abitazioni. Cosa fanno gli androidi mentre dormono, si chiedeva Philip Dick, nel suo racconto che ispirò Blade Runner. Lo scrisse nel 1968, s’intitolava: Do androids dream of electric sheep?
(arch. Dario Scodeller – storico del design)