Quali sono le relazioni fra luce e cibo? Come vive il tema della luce il grande chef? E quale peso riveste l’illuminazione nella realizzazione del piatto, ma anche nella presentazione dei cibo come prodotto nei grandi ipermercati e nella comunicazione della sua immagine? A queste e ad altre domande ha cercato di dare utili risposte la Tavola Rotonda organizzata dalla Redazione di LUCE E DESIGN
Il cibo è necessità, Cultura, condivisione, rappresentazione e socialità, ma in qualche caso il cibo è anche Arte, Progetto e Illuminazione. Ci è sembrato sia arrivata l’occasione di cercare di definire qual è la luce pensata e desiderata dagli chef per i loro piatti e per i loro ristoranti stellati, quali ruoli rivestirà la luce nel Food per l’esperienza professionale dei lighting designer, l’evoluzione delle proposte tecniche di illuminazione nella GDO e nelle grandi catene dei fast – food secondo i costruttori di apparecchi, le valenze progettuali della luce nella filiera del Food Design e nella Food Experience, il ruolo che la luce riveste nella comunicazione del cibo come prodotto e nelle nostre esperienze in qualità di consumatori. Abbiamo per questo riunito attorno al nostro tavolo di lavoro alcuni fra i nomi eccellenti dell’alta ristorazione, i lighting designer, i costruttori degli apparecchi, i Food designer, i fotografi specializzati e alcuni esperti e giornalisti di settore.
La Luce e la Materia

Per lo chef Gualtiero Marchesi: “…La luce è un tramite per veicolare la materia. I miei piatti (NdR: in un lapsus Marchesi ha detto quadri!..) lo dimostrano..”. Per Marchesi la creazione del piatto è un’operazione di sintesi, è saper agire sugli elementi di base “..perché la luce è già nella materia, e se si è capaci di comporre si è già fatto tutto, ma prima dobbiamo fare i cuochi..”.
Da un problema di ricerca di valori, nel caso dello chef Antonello Colonna, l’attenzione alla luce si trasforma invece in una sorta di affinità elettiva “…Intorno al cibo è stato un percorso, per me è stato un viaggio come un ingrediente, frutto di una ricerca, perché a un certo punto abbiamo dato per scontate le materie prime e siamo andati alla ricerca di ALTRE materie prime..e fra queste la luce è fondamentale sotto tutti i punti di vista..”.

E Colonna continua raccontando “..Nella mia vita segreta c’è la sensibilità della luce…spesso ho nella mia cucina Vittorio Storaro e Luciano Ventrone che di luce se ne intendono e poi è arrivato l’Open Colonna (NdR: uno spazio eventi, ristorante, bar e molto altro ancora, sulla sommità del Palazzo delle Esposizioni a Roma), questa “lanterna di cristallo” che vive di luce propria e dove ogni giorno ci divertiamo a fare esperimenti..”. A proposito delle scelte degli apparecchi di illuminazione artificiale all’interno del ristorante, Colonna ha voluto distinguere fra gli interventi temporanei realizzati in occasione degli eventi, e la luce artificiale per l’architettura, cresciuta a suo dire negli anni ’80 spesso solo “…in funzione della luce direzionale che andava sul tavolo..”.
Il piatto le la sua rappresentazione/ Le cucine male illuminate

Critico invece nei confronti di un’eccessiva esasperazione proprio del piatto e della sua rappresentazione è un altro chef presente all’incontro, Pietro Leemann: “…Io trovo che oggi con la luce ma anche con i piatti si stia andando verso una scenografia esasperata, si fanno i piatti in modo che il loro impatto visivo e anche emozionale sia esageratamente importante, e ci sono colleghi che pure di dare colore ai piatti, li colorano con coloranti…

Dal mio punto di vista si è persa la sostanza del cibo e anche dell’illuminazione che è la naturalità”. Secondo Leemann, che ha fatto della cucina naturale la sua ragione e etica professionale, lo spazio del ristorante e la proposta del piatto dovrebbero quindi evitare ogni elemento di artificialità, in quanto “…la luce è energia, e l’energia naturale è ben diversa da quella artificiale, la stessa cosa è la luce del piatto che è energia, ha un’energia sua propria, che se alterata porta in una direzione che entra a cambiare la nostra sostanza che è naturale”.

Il punto di vista di un’altra interessante presenza al tavolo, la street chef Emma Marveggio, sposta l’attenzione sul cliente finale e sulle esigenze del suo benessere. “…Mi piace molto il concetto di luce naturale, ma non lo vedo legato al cibo…La luce per me è legata al benessere delle persone, è fondamentale per stare bene o stare male. Parto dal presupposto che il buono eleva, e quindi ricercherò quello, ma in modo svincolato dal cibo. L’atteggiamento che vorrei con la mia luce è quello di cercare di ascoltare le persone, in modo tale che un ascolto corretto mi permetta di fornire la luce giusta per quella situazione..”.
La verità in equilibrio, fra il piatto e la luce
Per Gualtiero Marchesi l’idea di luce si fonda sulla luce del giorno, e da una forma di centralità, come quella de “…la famosa Arco di Castiglioni sul tavolo.. bella anche come oggetto e per illuminare il tavolo, mentre ora al “Marchesino” alla sera ci sono queste lampade centrali”. Sul piano della ricerca, il Maestro ha a questo punto insistito sull’idea della ricerca della Purezza come Bellezza. “…E’ nella semplicità che c’è il Bello, perché la chiarezza, la luminosità appunto è nel piatto, se uno compone bene nella semplicità mette in risalto tutto.. e poi per me è molto importante il piatto come contenitore, fa parte della composizione, perché il piatto mi aiuta proprio con la luce”. Secondo Giancarlo Morelli, anche accogliendo in ciò le indicazioni di Leemann verso quella che è “la natura nel piatto” “…se noi andiamo alla ricerca di un ingrediente sano, dobbiamo cercare di alterarlo il meno possibile e tanto meno con una falsa luce…Dobbiamo ritrovare un equilibrio fra la verità che sta nel piatto e la verità che sta nella luce”.
Il Food e i lighting designer

Paola Urbano
Come dovrebbe essere il progetto di lighting design nell’ambito del Food? Per la lighting designer Paola Urbano non ci si dovrebbe mai dimenticare che “…la qualità ambientale percepita di uno spazio va progettata” e che “…la costruzione di un progetto ad hoc ci deve essere come ci deve essere nel progetto di un piatto..quindi ci deve essere un progetto della luce anche se non per questo la luce significa per forza spettacolarizzazione”.
Quanto sotteso dalle parole della Urbano è cioè che quasi sempre l’intervento del lighting designer avviene per correggere un’illuminazione errata messa in opera da altri, e più raramente avviene in prima battuta. “…Ricordo ad esempio un ristorante a Milano dove la gente stava malissimo, e dove c’era questa luce dal basso verso l’alto…Al di là della percezione dei piatti devo dire che anche come incontro in termini di rapporti fra persone, quando ti trovi intorno ad un tavolo non c’è niente di peggio che una luce dal basso verso l’alto…Noi dobbiamo fare vedere correttamente le cose che dobbiamo mangiare o che dobbiamo vendere, nel caso della GDO..”.

Anche per il lighting designer Filippo Cannata questo è un argomento che soffre un po’ di una carenza culturale dal punto di vista dell’interpretazione della luce, perché viene a mancare spesso un focus di approfondimento sulle motivazioni che ci inducono a vivere questo tipo di esperienza “…e su quale dovrebbe essere l’identità di ciascuno, perché nell’approccio progettuale se c’è una cosa che difendiamo a spada tratta e sulla quale non si dovrebbe transigere è la difesa o l’esaltazione della propria identità, e per esistere un concetto di identità forte deve nascere necessariamente intanto un’evidenza”. Questa evidenza secondo Cannata può darsi soltanto se come progettisti si è in grado di tradurre in forma di luce l’esperienza vissuta attraverso il cibo, “…quindi la luce diventa un po’ come se mettessimo in funzione una radio senza però avere la manopola del volume”.
Bisognerà cioè riuscire ad avere un ambiente non statico, non monotono, ma che ha un suo ritmo, una sua dinamica, forse una responsabilità non appannaggio solo della luce, ma che – come uno degli elementi dell’architettura – ha la necessità, la responsabilità e forse anche il dovere di porsi in armonia così come gli chef fanno con gli ingredienti”. In conclusione, bisognerà operare cercando di introdurre nella filiera “…una cultura diversa, che è quella della contaminazione interdisciplinare che qui ha la necessità di essere contaminata dallo chef che è il padrone di casa..”
I colori e la scenografia del cibo

Salvatore Mancinelli
Per Salvatore Mancinelli, illuminotecnico e scenografo teatrale “…il cibo è una materia molto particolare che, a differenza che tutti gli altri beni esterni da noi, entra dentro di noi ed è legato ad un fenomeno molto particolare dove non c’entra il piatto o lo chef…ed è la necessità.. E se il piatto di per sè è una necessità, noi giriamo intorno al piatto perché ci vogliamo soddisfare, stimolare…è quindi importante illuminare bene il tavolo, l’ambiente e lo spazio, il piatto, si devono fondere in un tutt’uno, in una logica che va sotto il nome di olistica”. Quando vediamo un piatto, secondo Mancinelli noi inconsciamente lo leggiamo
nel suo colore, nella sua trama e nella sua forma e “..siccome il cibo è colorato e si
colora anche cucinandolo, la luce diventa importante perché fa leggere il cibo non più soltanto come sapore e necessità, ma in un contesto più subliminale, che – quando
piacevole – ci fa ritornare in quel ristorante e ci fa ricordare quel cibo.
La Memoria è l’equilibrio fra il buio e la luce
Mentre secondo Mancinelli il buio si pone come un forte limite alla percezione, Antonello Colonna riporta l’attenzione su un altro esempio di sinestesia che ci avvicina diversamente all’esperienza dei non-vedenti. “…Quando andavo a scuola associavo gli odori della cucina di mia madre alle materie scolastiche. Il venerdì mattina quando mi svegliavo sentivo odore di baccalà, ed era il segnale che era venerdì; quando invece sentivo il profumo del brodo, mi rimettevo subito sotto le coperte perché il brodo era di domenica…Voglio dire che abbiamo perso la persistenza storica della nostra memoria, ma se faccio una trippa alla romana a un cieco che ha però memoria culinaria la riconosce, e questo può essere il punto di equilibrio fra il buio e i sapori”.
Il punto di vista dei costruttori di apparecchi, in relazione a GDO e Fast Food

Per quanto riguarda le esigenze di illuminazione nell’ambito dei luoghi deputati alla vendita del prodotto cibo, secondo Davide D’Ambrogio (Zumtobel) “…Non c’è molta differenza fra i fast food e i ristoranti… La prima cosa importante è l’esigenza del cliente, che cosa vuole fare.. Noi diamo il mezzo per farlo. La luce non è chiaramente una materia che si può comprare, ma si compra qualcosa che fornisce la luce, si compra un semilavorato..”.
Paola Urbano fa notare a questo punto come resti ancora difficoltoso “..nell’ambito della luce distinguere il produttore rispetto al lighting designer”, e D’Ambrogio riporta questo stato di cose alla dinamica della domanda di mercato. “…E’ chiaro come la luce presenti due aspetti, un aspetto emozionale e un aspetto chiaramente fisico. Voi comprate apparecchi di illuminazione, e il loro utilizzo alla fine è dato un po’ anche dal mercato…ma la GDO sicuramente non chiama un lighting designer se non in pochissimi casi”.
Ma chiediamo: sta crescendo la qualità del livello della committenza? Per D’Ambrogio nell’ambito della GDO mettere insieme le esigenze dei diversi referenti, reparto tecnico, banco carne, commerciale “…è complicato ma è molto bello perché l’ufficio tecnico vuole risparmiare quindi devi cercare di dare il risparmio, il macellaio vuole ad esempio il prodotto esposto e illuminato nella maniera che vuole lui, in termini di resa cromatica edi temperatura colore, e ogni singolo prodotto ha bisogno di diverse temperature colore”.

Illuminazione
Per Marco Christian Cariati di Reggiani “…l’obiettivo finale della GDO, di Coop, di Esselunga, di Auchan, è comunque quello di riportare il cliente all’interno del proprio supermercato, e quello che noi facciamo è dare la corretta luce al prodotto e non alterarlo…e come produttori ci stiamo tutelando con tecnologie nuove affinchè la luce prodotta sottobanco sia la più vicina possibile al colore naturale reso dalla luce solare”. Cariati sottolinea a questo punto lo stato d’essere della filiera del progettista di illuminazione in Italia, con la figura di un lighting designer “…ancora sottodimensionata e poco tutelata”, e ricorda a Morelli come le problematiche da lui evidenziate relative alla cattiva illuminazione delle cucine “…non sarebbero mai accadute con un pool di lighting designer. Il lighting designer serio e le aziende serie le avrebbero chiesto: qual è la sua esigenza di chef?”.

– iMoon
Massimiliano Giussani di iMoon ci dice come sia importante “…far vedere al cliente le diverse possibilità di temperature colore e di indice di resa cromatica, in modo che il committente si renda conto visivamente e in modo immediato di come cambia ad esempio l’aspetto visivo di un panino in funzione della luce”. Dal punto di vista delle tecnologie adottate, in tutta la filiera della GDO, Giussani ci conferma come ormai “…Su cento supermercati, 99 siano fatti tutti a LED..”, mentre D’Ambrogio sottolinea come la tecnologia LED oggi permetta di lasciare fuori – a fronte inoltre di un notevole calo peso inferiore del prodotto rispetto alla lampada ad es. White Son da 100 W – “…la verdura e la frutta qualche giorno in più rispetto alla White Son perché con i LED le emissioni sono azzerate”.
La luce per il Food Design/ Il progetto del cibo come esperienza

La luce assume un rilievo importante anche nel progetto globale dell’esperienza del consumo del cibo. Per Paolo Barichella (Food Designer) “…il Food Designer oggi non è soltanto quello che progetta il piatto e/o l’ambiente in cui si consuma il piatto ma chi progetta tutto il contesto legato al consumo del cibo, una figura che si occupa di fruibilità, quindi di capire come consumare un atto alimentare in un contesto preciso.
Nel mondo del Food il ristorante occupa il 5% del modo di consumare cibo, si sente sempre di più parlare di Street Food, e il Food Designer oggi si sta occupando di capire come consumare nel modo più corretto un atto alimentare, perché il cibo si consuma oggi anche nelle SPA, fino ad arrivare alle navi da crociera, ai treni..”.
Barichella ha raccontato a questo punto del suo lavoro per MSC Crociere per la parte di ristorazione e buffet e del lavoro mirato ad ottenere la massima fruibilità con isole self-service tematiche, “…isole buffet completamente autonome..”, dove si è lavorato ad un tempo su elementi scenografici e coreografici, e dove “…la luce era diventata importante per creare la scena in specifici contesti di showcooking”. Barichella ha ricordato come queste siano divenute procedure processate, e come tutto “…sia stato messo tutto su manuali, dati come riproducibilità in modo tale che le persone potessero ripetere le operazioni in modo corretto”.
Parlando invece di fruibilità del cibo in relazione alla luce, Barichella ha poi ricordato come “…In questo momento storico sociale siamo sempre più portati a mangiare in piedi perché gli eventi organizzati ci portano in questo scenario e nel mangiare in piedi c’è anche il concetto della luce; a volte mi trovo infatti in punti nei quali la luce non c’è e non so neanche che cosa ho nel piatto, a volte è proprio il buffet che non è illuminato…o mi trovo in alcuni locali dove il buffet viene buttato su un bancone che era stato progettato per un altro motivo”. Diviene quindi fondamentale che il Food Designer operi su un piano organico e complessivo dal punto di vista progettuale.

Su un versante completamente differente è il punto di vista dell’altro Food Designer presente all’incontro, il catalano Martì Guixe, per il quale “…Il Food Designer è quello che lavora il cibo che si mangia, si
prepara, si ritualizza, si illumina e si consuma come ‘oggetto’, ma il problema è che nessuno pensa al cibo come oggetto..”. Per Guixe cioè il cibo deve possedere esso stesso “…tutta la funzionalità che ha un
buon oggetto disegnato e perciò non ha bisogno di queste protesi che sono il piatto e i coperti..”. Così un piatto della tradizione secondo Guixè si dovrà ritualizzare di nuovo in termini di consumo per ritrovare il suo valore come Oggetto.
Guixè ha raccontato in questa direzione il lavoro fatto nel 2011 con un cuoco “…dove abbiamo messo insieme cibo e luce, e il tema era cucinare con la luce solare (Solar Cooking, in Finlandia)”. Guixè in accordo con Pietro Leemann si dichiara contro a tutti gli interventi rivolti a mettere in evidenza gli aspetti cromatici del cibo, perché in questo modo “…si sta facendo un intervento che tende a diventare un make – up del cibo, e tutto diventa esagerato come succede nel mondo della moda”.
Quale immagine di luce per comunicare il cibo?

Renato Marcialis
Queste riflessioni sul valore dell’apparenza cromatica del cibo chiamano in causa in modo diretto ed inequivocabile l’esperto di immagine presente al nostro incontro, il fotografo specializzato in Food Renato Marcialis. La nostra curiosità è allora chiedergli subito quale sia la luce giusta nel piatto e per comunicare il cibo come prodotto, ad esempio nel Food packaging. “…Da parte nostra come fotografi specializzati nel settore cerchiamo di rendere tridimensionale quello che è bidimensionale per cui la luce è importantissima, non tanto la disposizione. Potrei fare un esempio, Bofrost, per fare un nome.
Anch’io non credevo che alla signora Maria quel catalogo potesse piacere…eppure dando la luce giusta alla signora Maria viene voglia di acquistare ed è talmente forte l’imprinting che se prendiamo la pasta al forno…per la signora Maria o chi per essa veda l’immagine su quella confezione.. la luce è importantissima…Ogni piatto ha bisogno di una sua luce, è come per gli chef, mi viene in mente il connubio di due o più ingredienti…
Nella mia serie “Caravaggio in cucina” c’è stato uno studio molto particolare sulla luce (NdR: si veda su questo tema il nostro Dossier a pagina 72, su questo stesso numero), ma qui è il movimento della mano che illumina…è come la mano che rimesta il risotto, ed è così che ho scoperto questa tecnica, la luce pennellata”. Tornando però alla rappresentazione del cibo e alla sua comunicazione, per Marcialis esiste anche un problema di appiattimento dell’immagine “…Si assiste ora ad un’esasperazione totale, portata nelle emittenti TV, a volte interessante, però esagerata…
Adesso nell’immagine fotografica tutti sono fotografi, nella massa c’è qualcuno che viene fuori, ma tutti quanti approfittano della luce di Dio, che è luce naturale…ma non è così che si fa, si deve imparare ad adoperare la luce, perché la luce te la fai tu…Se si prendono le riviste, vedi che è sempre la stessa immagine, e non c’è differenza…”.
Food Experience: il punto di vista dell’esperto

Abbiamo coinvolto nel dibattito Antonello Fusetti, che si occupa di formazione e didattica nel contesto delle attività di SPD Scuola Politecnica di Design e del nuovo Master Universitario in Food Design. “…La luce dà emozione, è unica perché ha il grande pregio di essere democratica: può dialogare con la casalinga di Voghera e con il grande intellettuale, sia a livello di installazioni che a livello di prodotti. Per cui credo si debba recuperare una cultura della luce e devono aiutare in questo anche le scuole…
Food Design vuol dire anche progettare il cibo, progettare l’esperienza, la distribuzione. Da quello che è stato detto qui noi non dobbiamo cercare luci che falsifichino la percezione, ma dobbiamo cercare una luce che valorizza quel dato ingrediente e il messaggio che lo chef voleva dare..”.
Per Gualtiero Marchesi un modo diretto per comunicare il piatto al cliente può essere per esempio l’ iPAD. “…E’ un modo di comunicare a tutti, l’utente vede il piatto che mangerà…Mi è venuta questa idea perché mi sono detto: quando compro un’automobile, un paio di scarpe le scelgo, quindi quando vado a mangiare al ristorante vorrei fare lo stesso…”. Fusetti ha a questo punto parlato degli obiettivi del Master “…Io voglio mettere insieme coloro che hanno fatto Design, quanti hanno fatto Management Comunicazione e Marketing con i Food Technologies e con tutta la filiera. Oggi per me è stata una lezione e molti di questi stimoli li metterò nel Master”.
Secondo Fusetti un approccio corretto al progetto di luce per il cibo ci chiede “…di essere attenti alla tradizione e di essere attenti anche alla contemporaneità per valorizzare la tradizione in maniera contemporanea”. E in relazione a questo Pietro Leemann ha ricordato a tutti che si pone anche la necessità di recuperare “…un’etica della luce e del design…Lo scopo del cibo e anche della luce è quello di far stare bene le persone insieme, e invece purtroppo spesso il cibo e la luce vengono utilizzati per altri scopi…il cibo diventa un veicolo per obbligare la persona a mangiarlo…e la luce per fare comprare le persone”.
La faccia scura della Luna e il lato critico del consumo/ La luce che resta da fare

In relazione al rapporto fra progetto di luce e cibo abbiamo voluto sentire il punto di vista di alcuni esperti e giornalisti di settore, anche per quello che riguarda la loro personale esperienza come consumatori e come professionisti. Venetia Villani, direttore del mensile “Cucina Naturale” (Tecniche Nuove), a proposito del ruolo dell’immagine del cibo sul suo giornale, ci dice come “…una rivista chiaramente ha esigenze diverse rispetto alla fotografia, se ci confrontiamo con un ristorante.
In una prima fase guardavo soprattutto ai contenuti, alla veridicità, e quando l’art director di Tecniche Nuove Franco Beretta mi disse che Cucina Naturale era “triste”, perché che c’era in quel momento quest’aura di tristezza sul naturale – che sembrava allo stesso tempo qualcosa di punitivo, deprimente e un po’ poco appetibile – superando le mie resistenze cominciai a guardare il giornale anche con un altro occhio…
Il voler seguire l’idea del naturale spesso portava diciamo così ad un monocromatismo delle immagini che venivano fuori spesso sui toni del marrone, che era associato dai fotografi al concetto di naturale e quindi abbiamo fatto un grande lavoro sulle immagini al tempo stesso di estetica ma anche di sincerità, e oggi possiamo dirci molto soddisfatti per i riscontri da parte dei lettori..”. La nostra curiosità a questo punto è comprendere dove sia possibile trovare questa esigenza di fedeltà nella filiera del cibo e Villani ci dice che nel biologico a suo parere trova “…molta sincerità, più che in altri ambiti più commerciali, almeno nella mia esperienza di consumatrice”.

– Imprese del Gusto” – NBM
New Business Media, Gruppo
Tecniche Nuove
Per Marina Bellati, giornalista della rivista “Ristoranti – Imprese del Gusto” , di NBM New Business Media – Gruppo Tecniche Nuove, il tavolo di oggi ha evidenziato da una parte la necessità di adeguare anche l’illuminazione alla funzione sempre più modulare e dinamica dei locali ristorante e dall’altra parte ha confermato il problema rappresentato da quanto Giancarlo Morelli accennava sul tema della luce nelle cucine, ricordando come esista ancora “…una grossa dicotomia fra la luce in sala e la luce in cucina, l’ambiente di lavoro e l’ambiente che ospita e.. come su questo aspetto i cuochi sicuramente debbano riflettere, perché significa che tu stai dando qualche cosa che non è poi quello che il cliente vedrà”.
E’ stato a questo punto ancora evidenziato come dietro a queste situazioni – oltre alla frequente assenza di un progetto di lighting design vero e proprio – tutto questo ancora accada, come sottolineato da Massimiliano Giussani, per un’insufficiente cultura della luce da parte del cliente finale.

Per Vincenzo Pagano (“Scatti di Gusto”) pure se “…E’ vero che si sta incominciando a capire che la luce è importante, fino a questo momento o fino a poco tempo fa l’attenzione a livello del committente è stata nell’idea che la luce è bella perché è bello il corpo illuminante”. Così non è infrequente a suo avviso trovare ristoranti “…che hanno un progetto di architettura e/o di Interior Design eccellente, mentre il risultato dell’illuminazione lascia completamente a desiderare”.
Pagano a questo punto ha voluto ribadire come per la media dei locali in Italia (le sue considerazioni erano rivolte in particolare al segmento dei ristoranti-pizzerie ) fatta eccezione per la nicchia dell’alta ristorazione stellata, vi sia la prioritaria esigenza economica “.. di riuscire a fare un doppio giro di tavolo”, e che dunque in questa prospettiva non sia possibile dire “…che è più importante la luce rispetto all’architettura, rispetto alla scelta di un piatto, tutto è allo stesso livello”.
Su questo tipo di scenario diffuso, si reinnesta tuttavia secondo Pagano, anche un problema di “gestione della luce” dal punto di vista dell’immagine fotografica che viaggia in rete, in quanto “…dovrebbe essere spiegato molto bene a chi sta costruendo un ristorante, o lo sta ristrutturando, che una sua fetta del vendere è affidata al livello di qualità (a suo dire spesso insufficiente) di fotografie da cellulare che fanno numero e riconoscibilità”. E qui ritorna a nostro avviso l’importanza e la centralità per tutta la filiera della presenza di un buon progetto di luce, che risulti possibile poi tradurre con uno dei plus della propria immagine promozionale.
In conclusione, l’occasione portata da questa Tavola Rotonda ha permesso di mettere a confronto – e forse per la prima volta in questo modo – le differenti competenze che definiscono la filiera, che soltanto attraverso un’azione più sinergica e collaborativa hanno l’occasione di realizzare insieme una svolta nei confronti di una maggiore e più puntuale attenzione verso il progetto di luce per il cibo in tutti i contesti applicativi.
Ha presenziato ai lavori della Tavola Rotonda, solo in qualità di osservatore, Saverio Canestri, project manager progetto Food Loft