
In quale modo i diritti di proprietà intellettuale possono aiutare designer e imprese dell’illuminazione a ripartire dopo il virus, a cominciare dai problemi dello smart working e del più ampio ricorso al licensing
Per cominciare già ora a costruire il futuro che ci attende dopo la fine della fase più acuta dell’emergenza Coronavirus, un ruolo sempre più importante sarà svolto proprio dai diritti di proprietà intellettuale e dal loro corretto utilizzo. A questo fine le imprese dell’illuminazione e i designer della luce dovranno tenere conto anzitutto di quattro fattori principali.
Primo: la globalizzazione non può essere messa in discussione perché non è possibile rinunciare a uno strumento come Internet, che già da solo, attraverso l’ecommerce, supera tutte le frontiere, né è pensabile il ritorno a economie chiuse, che neppure volendo saremmo in grado di realizzare. Dunque la nuova economia dovrà comunque svilupparsi nel contesto della globalizzazione e del resto anche l’emergenza che stiamo vivendo è frutto non tanto della globalizzazione, quanto della sua incompletezza, che non ha permesso alle informazioni di giungere in tempo utile per prevenire la diffusione del virus.
Secondo, corollario del primo: la globalizzazione dev’essere governata attraverso la libertà, economica e politica insieme, poiché solo la libertà e non un fantomatico governo mondiale – i cui pericoli sono sin troppo evidenti – contiene gli anticorpi per evitare che gli uomini rimangano persone e non vengano ridotti ad ingranaggi facilmente sostituibili.
Terzo: i cambiamenti nel modo di lavorare e anche le nuove professioni che inevitabilmente la crisi di questa “guerra al coronavirus” sta introducendo non potranno venire dimenticati dall’oggi al domani, anche perché presentano aspetti positivi per la vita e per l’ambiente, cui non sarebbe facile rinunciare.
Quarto, e ancora più importante sul piano operativo: già da anni l’allungamento della durata media della vita e il valore determinante del fattore-tempo nella nostra vita – spesso sempre più caotica e nevrotica – hanno portato in primo piano il bisogno di qualità della vita, che significa anzitutto salute, ma anche tutela dell’ambiente, benessere, sicurezza (anche delle comunicazioni), comfort, possibilità di conciliare le esigenze lavorative con quelle personali e quindi illuminazione degli ambienti, anche di casa, spazi abitativi in grado di essere “vissuti” al meglio sia per relax, sia per lavoro.
Una Visione del Futuro
Anche qui è perciò soprattutto importante avere una Visione del Futuro e la capacità di impostare corrette strategie di crescita, compatibili con le nuove esigenze che questa emergenza ha fatto emergere.
In questa prospettiva, gli accordi di cessione (anche per Stati) e di licenza (esclusiva e non esclusiva) sui propri diritti di proprietà intellettuale saranno ancor più fondamentali per utilizzare al meglio questi diritti come fattore competitivo sul mercato globale.
Volendo operare in nuovi mercati, è naturalmente essenziale anzitutto verificare che non vi siano brevetti o altri diritti “locali” (i quali possono essere diversi da quelli protetti nel Paese di produzione, anche quando appartengono alla stessa “famiglia” e hanno lo stesso titolare) che possano venire invocati contro la commercializzazione di questi prodotti.
E così facendo si può anche scoprire che vi sono innovazioni non protette in quel Paese e che quindi è possibile andare lì a produrre quello che non si può produrre “in casa”, per poi immetterlo sul mercato in quello stesso Paese e in altri dove non ci sono diritti dello stesso tipo e viceversa.
Gli accordi che possono essere stipulati non devono del resto riguardare solo i diritti derivanti dalla registrazione o dalla brevettazione, ma anche quelli che nascono già con la creazione o con l’uso: il diritto d’autore (anche su creazioni utili come il design, il software e le banche dati), i marchi non registrati e altri segni distintivi (naturalmente nei Paesi dove sono protetti come tali o contro la concorrenza sleale), le informazioni commerciali riservate e soprattutto il know-how tecnico e commerciale.
Tuttavia, nella stipulazione di questi accordi si deve sempre tenere presente la durata limitata di questi diritti, che in alcuni casi non è soggetta alla possibilità di estensione (ad esempio i brevetti, che durano 20 anni), in altri è prevista solo in forma limitata (pensiamo ai disegni e modelli, protetti in Europa per 5 anni, estendibile di 5 anni in 5 anni, fino ad una durata massima di 25 anni e in altri Paesi con durata diversa) e in altri casi consentita senza limiti (marchi, protetti per 10 anni, ma rinnovabili per un numero potenzialmente infinito di volte).
Va inoltre considerato che alcuni di questi diritti sono soggetti a decadenza in caso di mancato utilizzo (marchi e, su alcuni presupposti, brevetti), per cui l’utilizzo è condizione necessaria per la conservazione del diritto, cosicché non è possibile “disinteressarsi” dell’attività del licenziatario, che va invece costantemente monitorata.

Le problematiche da conoscere e affrontare
Naturalmente in un quadro di sintesi non è possibile passare in rassegna tutti i problemi che vanno affrontati. Indichiamone comunque alcuni che nell’internazionalizzazione delle imprese sono particolarmente importanti, specialmente nei difficili tempi in cui stiamo vivendo.
Un primo tema riguarda il know-how e più in generale i segreti commerciali. Non è un caso che il primo articolo dell’accordo commerciale di gennaio tra gli Stati Uniti e la Cina si apra proprio con la tutela dei trade secrets e nell’economia post-Covid saranno ancora più importanti, perché si cercherà più spesso di produrre o far produrre direttamente nei Paesi di sbocco dei prodotti, magari inviandovi solo semilavorati da completare e personalizzare localmente.
In questo senso anche lo smart working sempre più diffuso richiede cautele: occorre adottare misure tecniche che garantiscano la sicurezza della comunicazione e della conservazione dei dati da parte di chi lavora da casa (su computer che devono restare rigorosamente aziendali), sottoscrivendo anche appositi impegni integrativi del rapporto di lavoro o di collaborazione e curandone il rispetto, anche attraverso strumenti appositi, come quelli legati alla tecnologia blockchain.
Sul contenuto, e sull’esistenza stessa della protezione dei segreti commerciali, i contratti hanno infatti un impatto molto maggiore rispetto ad altri settori del diritto della proprietà intellettuale: poiché il mantenimento della segretezza è necessario per la continuazione della protezione della stessa, che è potenzialmente perpetua, gli obblighi di riservatezza possono (e anzi devono, se si vuole mantenere i propri diritti) avere una durata potenzialmente perpetua, che in quasi tutti i Paesi è legalmente consentita e diventerà sempre più importante, appunto in ragione delle prevedibili maggiori difficoltà negli scambi, almeno per qualche tempo, che porteranno a decentrare la produzione destinata ai mercati più lontani.
Poiché la tutela del segreto durerà fintanto che il patrimonio di conoscenze sarà segreto, è indispensabile prevedere che gli obblighi di riservatezza durino fintanto che le informazioni da essi coperte non siano divenute generalmente note o facilmente accessibili per motivi non imputabili al soggetto obbligato: prevedere una durata fissa, ad esempio 5 anni, può quindi essere fatale per la tutela dei segreti commerciali.
Lo stesso art. 39 del TRIPs Agreement contiene una nota interpretativa che indica la violazione del contratto come la prima condotta che rende abusivi l’acquisizione e l’uso dei segreti commerciali.
La corretta contrattualizzazione degli obblighi di riservatezza è quindi cruciale per la configurazione stessa e per un’adeguata protezione dei segreti commerciali, soprattutto nelle transazioni internazionali. Ciò richiede anche un’identificazione sufficientemente precisa delle informazioni che costituiscono segreti commerciali, sia per ragioni di validità dell’accordo, che per ragioni di diritto antitrust.
Una seconda questione riguarda i marchi. Nella maggior parte dei Paesi, l’ingannevolezza del marchio conseguente al modo o al contesto in cui viene utilizzato implica la decadenza di esso e la cessione o la licenza da cui derivi un inganno per il pubblico può addirittura rendere nulli questi accordi.
L’inganno rilevante ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui sopra può inoltre riguardare tutte le componenti del messaggio comunicato dal marchio e non solo quelle strettamente materiali: esistono, infatti, anche caratteristiche “immateriali” (e in primo luogo la paternità e la coerenza stilistica, ma spesso anche la provenienza geografica) che assumono un’importanza decisiva per i consumatori.
Inoltre, le regole del marchio sono coordinate con quelle relative ad altri aspetti della comunicazione aziendale, come la pubblicità e la responsabilità del produttore per i prodotti difettosi.
Inoltre, a parte le sanzioni, il rischio è che l’uso improprio del marchio da parte dei licenziatari o dei distributori locali influisca negativamente sull’immagine e quindi sul valore del marchio, anche a livello globale. Pertanto, anche in questo caso è essenziale la corretta contrattualizzazione dei rapporti commerciali internazionali.
Non meno importante, del resto, è curare che il messaggio che il marchio deve simboleggiare sia compatibile con la cultura del Paese in cui si vogliono vendere i propri prodotti, per evitare pericolose reazioni di rigetto. In altre parole, oggi più che mai si deve avere il coraggio di essere “glocal”, cioè di costruire un business globale, ma in grado di adattarsi alle peculiarità locali.
Un terzo punto riguarda la titolarità, la circolazione e l’utilizzo dei diritti di proprietà intellettuale, all’interno dei Gruppi di imprese, soprattutto se multinazionali. È infatti sconsigliabile basare la gestione di questi diritti nell’ambito di un Gruppo d’imprese sul mero principio della libera utilizzabilità dei diritti IP nell’ambito di un medesimo Gruppo, soluzione che non dà conto – anzitutto sul piano dell’autonomia patrimoniale e contabile delle singole società – dei reciproci rapporti di dare e avere, che meritano di essere pertanto opportunamente disciplinati e valorizzati sotto il profilo contrattuale, in particolare ricorrendo a veri e propri accordi-quadro.
Emblematica, da questo punto di vista, è la gestione dell’innovazione tecnologica, la cui creazione (o acquisizione da parte di terzi) è solitamente onerosa, e nel primo caso può comportare anche obblighi verso i dipendenti-inventori, legati al valore dell’innovazione: tali obblighi, infatti, ricadono in ogni caso sul datore di lavoro, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia o meno titolare del brevetto.
Non sarebbero quindi giustificati l’intestazione o il trasferimento gratuito dei relativi diritti di esclusiva ad altre imprese del Gruppo, se non a fronte di flussi economici in direzione opposta, che costituiscano la causa di queste attribuzioni patrimoniali.
Infine, ma non per questo meno importanti, le questioni relative alla giurisdizione devono essere attentamente considerate nella redazione e nella revisione periodica dei contratti, in particolare dei contratti di licenza e dei trasferimenti di tecnologia, soprattutto se si tratta di contratti a lungo termine.
Le clausole dovranno essere sufficientemente elastiche, in modo da garantire sempre la possibilità di un enforcement efficace, anche in presenza di situazioni di crisi e di cambiamenti radicali nel quadro giuridico di riferimento, come quelli derivanti dalla Brexit.
Dunque la strada per uscire dalla crisi in cui siamo immersi è lunga e impegnativa, ma già partire con il “piede giusto”, attrezzandosi per rispondere alle nuove domande del mercato e alle nuove esigenze che già sono emerse e perseguendo con coerenza un disegno strategico che guarda al futuro, rappresenta un decisivo plus concorrenziale, del quale le imprese e i designer della luce del nostro Paese non devono privarsi.
(a cura di avv. prof. Cesare Galli, Studio IP Law Galli, Milano)